Sul politically correct e la cancel culture è difficile non accorgersi dello iato tra le ossessioni anglofone e un generalizzato scetticismo “latino”, forse perché noi cattolici siamo per formazione meno intolleranti e rigorosi. Diciamolo: alla voce Union of Equality il manualetto della Commissione europea per la compilazione dei documenti ufficiali non convince: evitare di nominare il Natale, ladies & gentlemen, colonizzazione, Maria e Giovanni e gli anziani per sostituire questi termini poco inclusivi (?) con un lessico piatto e apparentemente neutrale, in modo che i buddisti, i disabili, le minoranze (?) etniche e i Lgbtq+ non si sentano discriminati – o peggio – si possano offendere, alla fine suona come una discriminazione alla rovescia dove, per evitare gli attriti, chi ha un’identità maggioritaria (ma in realtà in declino) può essere accettato da una minoranza organizzata solo se rinuncia alla propria identità e si autoesclude dal confronto democratico. Anche se alle parole corrispondono le cose (Wittgenstein), ho già scritto che è improbabile che una regola linguistica possa essere decisa dall’alto degli scranni dei burocrati di Bruxelles o dall’èlite di un campus universitario americano, a meno che queste leggi non ratifichino reali cambiamenti nella società, stabilizzati nel tempo e permeati nelle varie classi sociali. E non si venga a dire che sono regole interne d’ufficio: chi le impone pensa in grande e vuole imporle anche agli altri. Noi italiani ci siamo già passati quando il Duce aveva imposto il divieto di usare parole francesi e inglesi, con risultati grotteschi quanto certi eccessi del politically correct. Questo non significa che una lingua non possa cambiare e che il suo uso non ratifichi o crei gerarchie, differenze e quant’altro: la lingua è lo specchio della società che ne fa uso per comunicare al suo interno e nelle relazioni con l’esterno, quindi è anche e sempre strumento di potere. Ma quando una cultura o una religione cercano di sopravvivere negandosi o facendo pubblica e sincera (?) confessione dei propri peccati, non è questa la soluzione. Ho citato le grandi religioni perché sono un classico esempio di organizzazioni mentali nate in altri tempi: laddove un’economia di sussistenza doveva mantenere costante una forza lavoro di pastori, agricoltori e guerrieri non c’era posto per aborto, omosessualità e libertà della donna, per cui trovo patetici gli sforzi di alcuni teologi di dimostrare – Bibbia o Corano alla mano – che Dio in fondo ama i gay e che Sodoma è stata distrutta da un meteorite (forse è vero, ndr.). Ma in una società moderna e secolarizzata un’istituzione antica ha solo due scelte: sopravvivere o aggiornarsi allo spirito dei tempi, allo Zeit Geist. Ma quanto può cambiare senza negare se stessa e sparire comunque per mancanza di identità? La questione è aperta e non riguarda solo la sfera religiosa, ma anche quella delle istituzioni civili: scuola, esercito, matrimonio, magistratura…