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Il bando messo al bando

Le più importanti università italiane (Roma, Torino, la Normale di Pisa, la Statale di Milano) stanno boicottando l’accordo di cooperazione fra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e  il Ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) per la parte israeliana. Lo fanno per solidarietà con Gaza e l’atteggiamento del singolo rettore e senato accademico è ambiguo: nella mozione della Normale di Pisa si afferma “la necessità di ispirare le attività di ricerca e di insegnamento al rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per questo si impegna “a esercitare la massima cautela” nel valutare accordi istituzionali collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza”. Ma a questo punto vediamo cosa prevede il bando che ha spaccato l’università italiana. E’ pubblicato nel sito ufficiale del MAECI (1) e così recita:

Si richiedeva la presentazione di progetti congiunti di ricerca italo-israeliani, nelle seguenti aree di ricerca, entro mercoledì 10 aprile 2024 (ore 16.00, ora italiana):

1. Technologies for healthy soils (i.e. – novel fertilizers, soil implants, soil microbiome etc.)

2. Water technologies, including: drinking water treatment, industrial and sewage water treatment and water desalination

3. Precision optics, electronics and quantum technologies, for frontier applications, such as next generation gravitational wave detectors

Il testo ufficiale è stranamente stilato in inglese, mentre tutto il resto del documento (15 pagine) è in italiano e contiene una lunga serie di disposizioni amministrative: in tutto verranno selezionati 11 progetti congiunti con il finanziamento massimo totale di 1,1 milioni di euro. Per ogni singolo progetto il MAECI finanzia un massimo di 200 mila euro e comunque  non oltre il 50% dei costi indicati nel preventivo. I progetti di ricerca avranno la durata massima di due anni con il Ministero che cofinanzia i costi di personale, viaggi, materiali e attrezzature, spese per pubblicazioni, consulenze e spese generali.

Cercando ora di capire il testo in inglese, al punto 1 si parla di tecnologie agricole (nuovi fertilizzanti, impianti nel suolo, microbioma, pannelli solari), mentre il punto 2 si concentra sulle tecnologie dell’acqua (potabilizzazione, trattamento delle acque reflue e/o provenienti da impianti industriali, desalinizzazione). Il punto 3 invece parla di ottica di precisione, tecnologie quantistiche per applicazioni sperimentali in fase di sviluppo e non ancora disponibili per usi commerciali, come p.es. rilevatori di onde gravitazionali di prossima generazione. Una doverosa traduzione ufficiale (il MAECI è un ente di Stato italiano) o almeno un testo bilingue gioverebbe senza ambiguità  alla comprensione del contenuto, ma il punto è un altro: nel testo non si fa cenno a ricerche nel campo militare. E infatti nella mozione studentesca – fortemente ideologica, neanche a dirlo – si allude a collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari”. Quali? Non tanto quelle incentrate sui fertilizzanti (punto 1) ma casomai quelle che riguardano le ottiche di precisione e l’elettronica (punto 3), mentre non è chiaro se le tecnologie quantistiche sperimentali per lo sviluppo dei futuri rilevatori di onde gravitazionali possono avere un reale collegamento con l’industria militare, Invece nel bando non si parla stranamente di aerospaziale, che è invece il classico campo di uso duale della tecnologia di frontiera. Ma a loro replica Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche in Italia (UCEI) che ha definito il boicottaggio delle università israeliane “la cosa più assurda che abbiamo sentito pretendere (e che) non favorisce dialogo, pace, sapere e approfondimento, che sia verso le università israeliane, i singoli docenti, o anche soggetti di religione ebraica“.

Ma se nel bando non c’è traccia diretta di quanto temuto è perché la ricerca e lo sviluppo della tecnologia militare tra Italia e Israele non passano per l’università, ma sono legate piuttosto ai grossi gruppi industriali della difesa e aerospaziali, come Leonardo e le imprese a loro collegate. L’Italia per la difesa può solo far parte di alleanze, e queste scelte sono state fatte dal dopoguerra. E’ normale che tra alleati ci si scambino informazioni, tecnologie, ricercatori, mezzi materiali. L’esportazione di tecnologia militare non è coperta dal segreto di Stato, tutto è pubblicato ufficialmente dal Parlamento. Per il 2021 p.es. basta leggere il documento reperibile in rete e intitolato:

SENATO DELLA REPUBBLICA / XVIII LEGISLATURA / Doc. LXVII  n. 5

RELAZIONE SULLE OPERAZIONI AUTORIZZATE E SVOLTE PER IL

CONTROLLO DELL’ESPORTAZIONE, IMPORTAZIONE E TRANSITO DEI MATERIALI DI ARMAMENTO (Anno 2021) / (Articolo 5 della legge 9 luglio 1990, n. 185) / Presentata dal Presidente del Consiglio dei ministri (DRAGHI)

Comunicata alla Presidenza il 5 aprile 2022

Sono 1628 pagine e invitiamo chi avesse dubbi in materia a studiarselo. Negli ultimi dieci anni le aziende italiane hanno venduto a Israele tecnologia militare e armamenti per 120 milioni di euro, ma gli acquisti arrivano quasi a 250 milioni, pur con alti e bassi (2). Nel 2022 Israele ha ricevuto armi da aziende italiane per quasi 9,3 milioni di euro. Israele è comunque solo una parte dell’insieme: nel 2022 le aziende italiane hanno esportato armi nel mondo per un valore complessivo di circa 5,3 miliardi di euro. In questa somma sono compresi i costi delle intermediazioni fra i vari Paesi, le licenze e le autorizzazioni alla vendita. Nel complesso il valore delle autorizzazioni alla vendita di armi ammonta a circa 3,8 miliardi di euro. Il primo Paese a cui nel 2022 l’Italia ha venduto armi è stato la Turchia (598,2 milioni di euro), seguita dagli Stati Uniti (532,8 milioni) e dalla Germania (407,2 milioni). Ma a complicare i dati c’è la realtà di una serie di ricerche e prodotti “dual use”. La tecnologia avanzata ha ricadute sia nel campo militare che in quello civile: basta pensare all’elettronica, all’informatica, alle telecomunicazioni, all’aerospaziale, allo sviluppo dei semiconduttori, al punto che è difficile fare discriminazioni se non per quanto riguarda le armi vere e proprie. Pertanto la voce “tecnologia militare” non va intesa in senso assoluto. In questo senso, anche se ragionando in senso inverso, interviene lo storico Franco Cardini: ogni accordo universitario può avere scopi bellici (Corriere Fiorentino del 9 aprile). D’altro canto le università italiane hanno rapporti di collaborazione con mezzo mondo, ma non tutti i paesi coordinati sono democratici e rispettosi dei diritti umani: gli accordi in vigore p.es. stipulati dall’Università di Bari “Aldo Moro” comprendono l’Iran, la Russia e la Turchia (3). Ostacolare la ricerca scientifica e/o la cultura è non solo antidemocratico, ma controproducente, e su questo la UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) è stata ferma, parlando attraverso  la presidente Noemi Di Segni: “Sono contraria al boicottaggio accademico d’Israele. Le collaborazioni tra università, tra comunità di scienziati, tra studenti sono importanti. Sono un’occasione di incontro e dialogo per capire diversi approcci. Se si vuole costruire un futuro più pacifico, la strada non è il boicottaggio”. (4). Nel frattempo 8000 fra artisti e intellettuali hanno firmato un documento per vietare la presenza di artisti israeliani alla Biennale d’arte di Venezia (20 aprile- 24 novembre) (5). L’artista ebreo Ruth Patir, oltre ad avere uno spessore artistico di tutto livello, in realtà è contro la politica di Netanyau (6), ma evidentemente questo non basta. Nel frattempo il presidente Mattarella il 12 aprile è intervenuto direttamente nel contesto, dichiarando testualmente che “le università sono la culla della libertà di pensiero, da sempre esprimono il dissenso anche contro il potere e devono essere libere di continuare a farlo, ma chiudere la collaborazione con altri atenei è sbagliato perché, se si taglia il dialogo anche con università di Paesi impegnati in crisi o conflitti, si rischia di ottenere l’effetto opposto, cioè quello di aiutare il potere, quello peggiore”. 

Eppure anche in questo caso è utile non censurare niente, questo si è ribadito anche quando hanno cercato di boicottare i film russi alle mostre del cinema: sono proprio quelli i luoghi per conoscere gli altri e le loro idee, è l’incontro e scontro con opinioni diverse, il Foro dove confrontare le molteplici visioni del mondo, magari anche litigando. Ricerca scientifica e culturale alla fine promuovono l’interazione, lo scambio, la crescita sociale e politica. Proprio per questo non va ostacolata né censurata in nome dell’ideologia.

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Note

  1. https://www.esteri.it/it/diplomazia-culturale-e-diplomazia-scientifica/cooperscientificatecnologica/accordi_coop_indscietec/
  2. https://pagellapolitica.it/articoli/commercio-armi-italia-israele
  3. https://www.uniba.it/it/internazionale/network/accordi-di-cooperazione-internazionale
  4. https://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/universita-lo-sdegno-degli-ebrei-italiani-per-il-boicottaggio-di-israele/
  5. https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/italia/alla-biennale-di-venezia-gli-artisti-contro-israele-chiedono-il-boicottaggio/
  6. https://www.pikasus.com/biennale_arte_2024/padiglione-israele-biennale/

La cultura fa male quando vuol far bene

Woke è un termine che si riferisce alla consapevolezza di questioni che riguardano la giustizia sociale e la giustizia razziale. A volte è usato nell’espressione inglese vernacolare afroamericana “stay woke”.

Le dure polemiche che stanno scuotendo la cultura universitaria americana e in Europa quella francese, olandese, belga e inglese finora sembrano non toccare le nostre università: da noi ancora si discute sulle guerre del fascismo, come se il dibattito fosse ancora fermo alla linea del 25 aprile (1). Questo ritardo culturale non è strano: in Italia le novità arrivano sempre dall’America o dalla Francia, e può darsi che sia solo questione di tempo: nel ’68 gli effetti del maggio francese smossero i nostri atenei con qualche mese di ritardo. In più, le condizioni della cultura italiana sono diverse: non abbiamo il razzismo come problema endemico; non abbiamo ancora grandi comunità islamiche “assertive”; né abbiamo avuto decolonizzazione perché nel ’43 le colonie le abbiamo perse da un giorno all’altro e da quel momento quella storia non ci riguardava più. Inoltre, le nuove minoranze etniche o le comunità Lgbt ancora non hanno raggiunto una massa critica tale da scalare il potere negli atenei e nei posti chiave dei mass media e dell’editoria. Perché di lotta per il potere si tratta: l’università è il luogo dove bene o male si seleziona la futura classe dirigente e si elabora la cultura del Potere. Come insegna proprio il ’68, nell’arco di due decenni è possibile occupare i posti di potere nel giornalismo, nell’editoria, nei telegiornali e naturalmente nell’università. Alla fine, mutatis mutandis, sono semplicemente i giovani che scalzano i vecchi. Ma chi sono oggi gli studenti? E cosa sono gli atenei?

La situazione dell’università è cambiata nel tempo soprattutto per l’attuale  natura dei finanziamenti: a meno che a investire negli atenei non siano le industrie private in funzione della ricerca (a loro funzionale, ovvio), nelle università private i finanziamenti sono strettamente legati alle rette degli studenti, mentre in quelle pubbliche al loro numero. Sono fattori analoghi ma convergono su un punto: gli studenti condizionano  la natura dei corsi universitari in maniera molto maggiore che nel secolo scorso. Da qui anche un certo conformismo del corpo accademico: corsi e contratti vengono rinnovati se hanno un numero sufficiente di studenti. Quando mi sono laureato io in Lettere (1976), alcune tesi in archeologia venivano date solo a chi sapeva leggere il tedesco, mentre oggi non è richiesto più neanche l’esame scritto di latino: la facoltà perderebbe studenti, né la scuola secondaria li aveva preparati come una volta. C’è poi talvolta un curioso conformismo dell’anticonformismo: una teoria radicale se non addirittura strampalata può attirare più studenti di un corso “normale”. Anche se qualificato, devi essere “cool”, “fico”. Ricordo ancora la tesi di un accademico straniero, che per anni si è fatto un nome attribuendo il declino e la caduta dell’Impero romano esclusivamente all’uso delle tubature di piombo. Quella che al massimo poteva essere una causa di inquinamento e fonte di malanni vari, per chi gestiva la cattedra era il proprio asso nella manica, riverberato in decine di articoli di riviste accademiche obbligate comunque a discuterne. Morale: se sei originale fino al paradosso, la tua carriera è assicurata. Ma questo avveniva in tempi normali. La novità è nella violenza con cui ora alcune idee vengono veicolate se non imposte, andando persino contro l’idea stessa di Università.

In realtà l’università americana punta di diamante della Cancel Culture è un po’ diversa dalle altre: nella Howard University di Washington si è formata la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e tale ateneo è da molti anni la roccaforte degli afroamericani, una sorta di “Harvard nera”: è stata uno dei simboli della contestazione negli anni ’60 e del movimento per i diritti civili. Fra i suoi studenti più celebri, oltre alla vicepresidente Usa, il giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu Andrew Young, il deputato Elijah Cummings, il Premio Nobel Toni Morrison, l’attore Isaiah Washington. È qui che si formano l’intellighenzia e la classe dirigente afroamericane. Niente di strano che l’ideologia del politically correct e della Cancel Culture prendesse qui una deriva radicale. E a farne le spese ora sono gli studi classici, pur presenti dal 1867: la Howard University ha deciso di dichiarare guerra ai classici della letteratura e della filosofia, che hanno il difetto di essere bianchi e quindi non abbastanza “inclusivi” e al passo coi tempi per le università – soprattutto statunitensi e anglosassoni – diventate la culla del politically correct. Il Dipartimento di studi classici verrà smantellato per creare “priorità diverse” nei piani di studi degli studenti e i professori di ‘classics’ verranno spostati in altri dipartimenti, dove i loro corsi potranno ancora essere insegnati (immaginiamo come). Ma già la Princeton University attraverso Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici, aveva spiegato al New York Times, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così “invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa”. Peralta (aspirante suicida?) va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. “Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore”, ha detto al New York Times, “non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici”. Non va meglio nel regno Unito, dove nelle scorse settimane l’Università di Leicester ha annunciato l’intenzione di accantonare Geoffrey Chaucer – il Boccaccio inglese – a favore di modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere. L’università giustifica tale scelta con l’esigenza di modernizzare i piani di studio rendendoli più adeguati alla sensibilità e alle prospettive degli studenti di letteratura inglese. I quali si suppone provengano ormai da estrazioni sociali ed etniche diverse, altrimenti non si capirebbe questo senso di estraneità verso una cultura superiore, tale da rasentare il delirio e il fascismo mascherato. Quando poi veniamo a sapere che la curatrice del museo della scrittrice Jane Austen deve preoccuparsi di giustificare l’uso del tè e di altri generi ”coloniali” da parte di una scrittrice vissuta due secoli fa, allora chiediamoci piuttosto se la raccolta dei pomodori nel Cilento non sia un esempio di neoschiavismo. Sicuramente gli antichi Romani erano imperialisti: la parola stessa “Imperium” è latina. Ma il “cultural heritage” comprende anche il Diritto Romano. E poi, davvero Russia e Cina non perseguono dopo duemila anni obiettivi simili a quelli dei Romani e con mezzi altrettanto discutibili sul piano morale?  Per fortuna, da noi l’espulsione della cultura e delle lingue classiche dall’istruzione superiore sancirà al massimo il consolidamento definitivo del Liceo Statale Semplificato (LSS), obiettivo perseguito per anni da certa pedagogia. Ma bisogna comunque tenere gli occhi ben aperti: imitare costa meno che creare e noi italiani sappiamo sempre adattarci.

Quello che piuttosto sorprende è la timida risposta a questo modo di vedere il mondo. Pur di non perdere il posto per motivi da noi ancora considerati illegali, troppi giornalisti e accademici hanno fatto un auto-da-fé che ricorda le confessioni spontanee dei tempi di Stalin. Noam Chomsky – ormai un vegliardo ma pur sempre combattivo e soprattutto grande analista del Potere e del suo linguaggio – ha invece risposto a tono: il movimento nato per fare i conti col passato si è avvitato in se stesso diventando motivo di divisione tra generazioni (3). La lettera aperta è stata firmata da altri 150 intellettuali americani, tutti comunque di una certa età. Ma c’è anche chi semplicemente si è adeguato allo Zeitgeist, lo spirito del tempo: alcune ditte inglesi curano a pagamento i profili dei clienti di fascia alta che vogliono ripulire il proprio curriculum o profilo Facebook con Spic&Span (2). Chi paga fino a 13.000 sterline vuole dunque difendersi in anticipo da qualsiasi accusa che possa distruggere da un giorno all’altro la sua carriera, il che mostra i nervi scoperti di una società spiazzata e insicura, ma anche troppo legata alla costruzione della propria immagine pubblica. Mi viene in mente la frase tipica della serie televisiva Perry Mason: “Ricordi che ogni parola che dice potrà essere usata contro di lei”.

Note:

  1. https://www.ilpost.it/flashes/marina-militare-celebra-battaglie-fascismo/
  2. Inside the ‘digital cleanse’ companies taking on cancel culture, sul Financial Times: https://www.ft.com/content/3f1c1edd-a319-4bec-af7b-a4a839919a91