Gallerie

Arabia In-Felix

Sull’Arabia Saudita le opere in italiano non sono molte e il libro di Liisa Limatainen riempie un vuoto, visto che il documentato libro di Pascal Menoret, Sull’orlo del vulcano. Il caso Arabia saudita risale al 2004 e ha un taglio accademico, mentre la Limatainen è una nota giornalista finlandese che da anni vive a Roma, ma ha scritto già un libro sull’Iran (non ancora tradotto) ed ora ci offre uno spaccato trasversale dell’Arabia saudita, una nazione strategicamente importante quanto ideologicamente arretrata, ai limiti del medioevale. E se il libro di Menoret si preoccupava delle future conseguenze dell’immobilismo della famiglia reale e della dirigenza religiosa, il crollo del prezzo del petrolio ha messo ora in crisi il patto sociale che manteneva stabile la società saudita: benessere senza diritti civili. Stiamo parlando di un paese dove non esiste parlamento né codice civile e penale strutturato, dove le esecuzioni capitali avvengono sulla pubblica piazza e la polizia religiosa bastona i trasgressori; un paese dove la popolazione ha una scarsa coscienza dei diritti civili e l’estesa famiglia reale ha il monopolio di tutte le attività politiche e produttive. Ma è anche un paese dove più della metà della popolazione è giovane, ma oggi è disoccupata e non può comprar casa. Quanto alla condizione femminile, l’Arabia saudita vieta alle donne di guidare l’automobile e praticamente prevede una tutela continua di un familiare maschio. Peccato che le donne siano ben più colte degli uomini – molte hanno studiato all’estero – e stiano anche lavorando sul Corano per discuterne il reale messaggio sociale. E proprio con molte donne Liisa ha parlato: attiviste politiche, avvocate, impiegate, ma anche donne comuni, pur con il limite di un interprete. E’ stato un lavoro paziente e sistematico, ma alla fine esce un quadro anche diverso da come ci s’immagina una società in realtà molto complessa e diversificata sia per zone geografiche che culturali, ma che continua a confondere la modernizzazione con la modernità e ha re islamizzato un paese islamico pur di battere la concorrenza degli integralisti religiosi. Integralismo che sta alla base dello stato stesso, che non è – si badi – uno stato teocratico, ma condizionato da un’alleanza di ferro fra un clan tribale originario e il clero rigorista wahabita. Ora, per capire la differenza tra questa corrente rigorista e il resto dell’Islam, si tenga presente che la fonte del diritto è naturalmente il Corano e l’insieme dei detti del profeta, ma le scuole coraniche non rigoriste accettano anche l’enorme corpus del diritto consuetudinario che gradualmente si è formato attraverso migliaia se non milioni di sentenze dei tribunali islamici. Questo ha perlomeno adattato alla modernità usi e costumi pensati mille anni fa da una società di allevatori nomadi, analogamente all’interpretazione della Bibbia rielaborata dai nostri teologi. E’ chiaro che il Diritto Romano nulla deve alla divinità, ma stiamo parlando di un altro mondo. Ora, l’interpretazione wahabita non tiene conto proprio delle sentenze del diritto consuetudinario, congelando il diritto alle prime due fonti e di fatto rifiutando la modernità e costringendo la gente ad applicare le regole in modo dogmatico e rigido. E qui subentra la famiglia reale – in realtà un clan tribale superficialmente modernizzato – dagli anni Trenta del secolo scorso è custode dei luoghi sacri del Corano, a cominciare dalla Mecca, e questo dà un prestigio immenso nel mondo musulmano. In più, naturalmente, il petrolio, che ha permesso di stabilire con gli Stati Uniti un patto che risale agli anni Trenta del secolo scorso: protezione in cambio di petrolio e ruolo di mediazione con gli altri paesi arabi. Le forze armate saudite hanno più mezzi che soldati, e proprio ieri gli USA hanno venduto loro armi per 100 miliardi di dollari. Questo non toglie che negli ultimi anni i rapporti tra i due paesi non sono buoni: gli Usa non sui sono mai intromessi nel sistema medievale con cui è governata l’Arabia saudita, ma il finanziamento neanche tanto occulto con cui i salafiti foraggiano il terrorismo islamico e centinaia di moschee integraliste ha provocato reazioni che hanno modificato comunque i rapporti diplomatici tra i due paesi. L’Iran è un antagonista, l’Arabia saudita un ambiguo alleato dell’Occidente, ma anche la pazienza ha un limite. Ma che il paese abbia un peso lo indica il suo ruolo all’ONU nella Commissione per i diritti umani, che è come affidare il ministero degli Interni ad Al Capone. E qui arriviamo al punto nodale: se il livello di civiltà di un paese si misura sulla base del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche – afferma la Limatainen (ma potrebbe dirlo chiunque) – allora l’Arabia saudita è uno degli stati più retrogradi della Terra e in più opprime le donne in maniera patologica, e il libro è pieno di esempi.

Il lettore intelligente si chiederà a questo punto: ma quanto può durare uno stato simile? La guerra in Yemen è costosissima, l’economia non è diversificata, la metà dei giovani non può comprar casa o trovare lavoro e quindi non può sposarsi subito. Nonostante il petrolio la metà della popolazione vive in povertà, la scuola non prepara i tecnici e la modernità non può essere governata con un codice buono per i beduini. Quello che è peggio, i giovani militarmente addestrati all’estero o in patria, quando tornano diventano i più pericolosi nemici della famiglia reale, e in questo la politica saudita alleva piccoli Frankenstein, come dice la Limatainen. Ma nemmeno la popolazione normale è ferma: pur in un regime di censura, nei soli ultimi cinque anni è esploso il Web, tutti i giovani sono connessi e possono farsi un’idea di come vivono gli altri. Il confronto non è tanto con il corrotto e infedele Occidente, ma proprio con i paesi vicini e affini – Oman, Emirati arabi, Dubai, col risultato di vedere che si vive meglio e con un minimo di diritti civili. Le strade sono dunque solo due: una lenta, progressiva apertura verso una rappresentanza politica delle classi sociali, unita a una modernizzazione legislativa e scolastica adeguata ai tempi. Se la famiglia reale sarà capace di trasformare il potere in una monarchia costituzionale, bene. Altrimenti è facile prevedere una serie di rivolte sanguinose entro pochi anni. Staremo a vedere.

****************************

Titolo: L’Arabia Saudita. Uno Stato contro le donne e i diritti
Autore: Liisa Liimatainen
Titolo originale: Saudi-Arabian toiset kasvot. Rohkeita naisia ja Kybernuoria
Traduzione: Irene Sorrentino
Editore: Castelvecchi, 2016, p. 284
Prezzo: 19,50 euro

EAN: 9788869446498

****************************

Qualcosa di più:

Arabia Saudita: Le donne si ribellano al controllo maschile
I Diritti Umani secondo i sauditi

Un anno di r-involuzione araba
Primavere Arabe: il fantasma della libertà
Donne e Primavera araba. Libertà è anche una patente

****************************

All’estero si va solo in borghese!

Una recente circolare del Ministero della Difesa sospende da oggi le autorizzazioni per l’uso della divisa al personale militare in congedo non in attività di servizio o missione, che vuole recarsi all’estero per significative manifestazioni di carattere militare (gare sportive, incontri di delegazioni militari, raduni, esercitazioni) (1). Finora l’associazione d’Arma di riferimento mandava formale richiesta all’ente o Comando responsabile della manifestazione per il nulla-osta, e tutto poi passava per gli addetti militari d’ambasciata. Ora invece si dice che: “Il mutato quadro geo-politico che ha interessato la comunità internazionale suggerisce di valutare la limitazione dell’uso delle uniformi fuori dal territorio nazionale per i militari in congedo non in attività di servizio. Infatti, negli ultimi anni gli Addetti Militari hanno richiamato l’attenzione circa la necessità di attenersi ai divieti di indossare le uniformi fuori dall’attività di servizio che le autorità internazionali impongono anche ai propri militari”. Terrorismo, dunque: ormai i singoli militari sono diventati bersagli invece che deterrenti, ed è  meglio non creare confusione con la presenza di personale in divisa d’incerta identità, soprattutto all’esterno delle zone militari.

Dopo avervi annoiato, vi chiederete il motivo di tanto interesse da parte mia: ebbene, sono uno di quelli che ha partecipato a gare sportive internazionali indossando la divisa del militare in congedo, e con me centinaia di connazionali che a suo tempo hanno fatto il militare ma amano ancora tenersi in forma. Sia chiaro: nessuno di noi è antimilitarista. Chi è vicino alla frontiera trova molto interessante e poco costoso partecipare con la propria squadra a una gara addestrativa in Svizzera, Baviera, Austria o Slovenia, dove sei accolto dai riservisti locali, ti sposti con mezzi militari, puoi usare armi vere e partecipare ad esercitazioni dure e complesse, entrando in competizione con reparti in servizio e riservisti ben addestrati. Mentre in Italia sei castrato e malvisto dall’inizio alla fine, all’estero hai una dignità. Anche arrivando agli ultimi posti – ma non sempre – la mia squadra si è misurata con reparti di professionisti e nel corso degli anni ha riempito di coppe la nostra sezione del Fante. Altri preferiscono invece andare a sparare nei poligoni militari stranieri perché lì puoi usare armi che in Italia puoi solo guardare anche se sei un carabiniere. Infine, sono venuto a sapere che l’Associazione volontari di guerra (esiste ancora) è assidua frequentatrice della festa della Legione Straniera a Calvi (Corsica). Non stupitevi: chi vuole avere una copertura giuridica spesso s’iscrive ad associazioni morenti, purché riconosciute dal Ministero della Difesa. Il guaio è che spesso non è facile controllare l’assetto formale e la disciplina di certa gente: ho sentito di uno che è andato in giro in mimetica per le vie di Amsterdam, mentre poteva farlo solo in caserma e per la durata dell’esercitazione. Voi direte: per chi sgarra c’è la polizia militare. Ebbene, il problema nasce proprio dallo status dei militari in congedo italiani: esistono associazioni di ex-combattenti e associazioni d’Arma riconosciute dal Ministero della Difesa, ma non esiste la Riserva, quindi giuridicamente i militari in congedo italiani sono solo civili iscritti ad associazioni di diritto privato, le quali accolgono nei loro ranghi anche simpatizzanti che non hanno mai fatto il militare. Partecipare a gare “riservate ai riservisti” senza esserlo è stata una bella acrobazia, finora tacitamente tollerata. Ora la pacchia è finita. So bene che tutto questo piacerà molto alla maggior parte dei lettori e delle lettrici, ma concedetemi – è il caso di dirlo – l’onore delle armi.

 

NOTE

  • La normativa SMD-G-010, sezione VI, regola le disposizioni sui militari in congedo e il regolamento sulle uniformi. La parte riferita all’estero è al paragrafo 31.

Pigna: Il Restauro di una fontana

E’ stato appena presentato il restauro della fontana della Pigna situata in un angolo di Piazza San Marco, è stato finanziato, con la spesa di 19.000 euro, dal Rotary Club Roma e compiuto dal Consorzio R.O.M.A.. Il manufatto si presentava in stato di degrado dovuto alle concrezioni calcaree per il tipo di acqua in uso a Roma ed anche all’utilizzazione massiccia; infatti, data la sua posizione, è  un “abbeveratore” per torme di turisti e a volte luogo di abluzioni per “migranti” che affluiscono alla mensa dei Gesuiti nella vicina via degli Astalli. La fontana fa parte di un lotto di fontanelle rionali commissionate nel 1925 dal Governatorato di Roma allo scultore Pietro Lombardi e inaugurate il 28 ottobre 1927, data simbolica all’epoca. Le fontanelle dovevano ispirarsi al nome o alle attività del Rione in cui erano collocate; abbiamo così quelle delle Anfore a Testaccio, una con Palle di Cannone a Borgo, vicino a Castel Sant’Angelo, una con Tavole e Pennelli a Via Margutta, una con una catasta di Libri a Sant’Eustachio nei pressi dell’ antica Università “ La Sapienza”. Nel nostro caso ripete il nome del Rione, IX Pigna, ed il suo più celebre monumento antico: una pigna di bronzo alta 4 metri situata in epoca romana più o meno nelle vicinanze del Pantheon ed ora nell’omonimo cortile in Vaticano dopo essere stata per secoli in Piazza San Pietro dove fu vista e citata da Dante. La fontana del Lombardi è in travertino ed è composta da una pigna posta sopra un calice formato da foglie a sua volta sovrastante una serie di vaschette, sui lati del pilastro che regge il tutto da una parte uno stemma abraso con la scritta R. IX, dall’altra si intuiscono resti di un fascio scalpellato e la scritta  A(nno) V (E.F); l’area è delimitata da quattro colonnotti. E’ un’opera, come le sue consorelle, graziosa e simbolica,  fa pensare con nostalgia, esclusivamente artistica, ai tempi del Governatorato che ordinava e faceva eseguire celermente mentre ora il Comune in molti casi deve ringraziare generosi mecenati che a lui si sostituiscono.

Il pittore e il mistero svelato

Esaminiamo la frase che sembra il titolo di un libro giallo. Il pittore: Bernardo di Betto più noto come Pintoricchio, soprannome originato unendo la sua professione con una corporatura minuta, nato a Perugia intorno al 1450 iniziò il suo apprendistato, non conosciuto, presso pittori locali associandosi poi con il Perugino.

La sua prima opera nota è la partecipazione al cantiere dell’Oratorio di San Bernardino a Perugia, fu poi a Roma con il Perugino nella Cappella Sistina; nell’Urbe dipinse nella Cappella Bufalini nella chiesa dell’Aracoeli, nel Palazzo Della Rovere, ora dei Penitenzieri, in Borgo e a lui e ai suoi collaboratori sono attribuite due, forse quattro, cappelle in Santa Maria del Popolo. Entrato in contatto con il Papa Alessandro VI Borgia fu chiamato ad affrescare l’appartamento papale; insieme ai suoi collaboratori Piermatteo d’Amelia, Raffaellino del Garbo, Pellegrino Tibaldi, coprì le pareti con una mirabile serie di dipinti seguendo una precisa iconografia religiosa.

Operò anche a Castel Sant’Angelo, intervenendo nella decorazione di un torrione costruito a picco sul fiume e demolito a metà ‘600, nel grande affresco del soffitto del coro di Santa Maria del Popolo e nella Cappella Baglioni a Spello; a Siena dipinse la Libreria Piccolomini nel Duomo. Oltre che per questi grandi cicli di affreschi fu abile pittore di cavalletto lavorando per committenti religiosi e laici. Ricco e famoso morì a Siena l’11 dicembre 1513. Pittore pienamente inserito nel Rinascimento si contraddistinse per il suo stile calligrafico e minuto, per le sue figure composte dalle espressioni serene, per il suo riferirsi a reminiscenze gotiche, per la scelta dei colori sontuosi ed eleganti. Passiamo ora alla seconda parte esaminando con occhio curioso la vita della Roma papale di fine ‘400 in cui operò il nostro Pintoricchio. All’epoca era pontefice Alessandro VI Borgia, di origine aragonese, molto discusso per la sua vita privata; prima di essere eletto papa aveva avuto, da una relaziona con Vannozza Cattanei, quattro figli tra cui Lucrezia e Cesare, detto il Valentino. Anche dopo la sua elezione continuò ad avere una vita dissoluta e dal punto di vista politico coinvolse lo Stato della Chiesa in guerre con altri stati italiani favorendo l’entrata in Italia del re di Francia Carlo VIII. Colto e mecenate di ogni tipo di arte, fece della Curia pontificia uno dei centri culturali più vivaci dell’Italia del Rinascimento. Chiamò a Roma il Pintoricchio per affrescare il suo appartamento in Vaticano e tra i vari personaggi fece dipingere se stesso avvolto in uno splendido piviale dorato, forse la figlia Lucrezia ed il principe Turco Djem, fratello del Sultano, allora in esilio a Roma. Alessandro VI, ultrasessantenne. si innamorò di una giovane, all’epoca ritenuta molto avvenente, conosciuta come “la bella Giulia”; nata Farnese, coniugata con un Orsini, madre di una bimba dalla dubbia paternità, la donna attirò l’attenzione del Borgia che se la tenne sempre vicina, con il tacito consenso del marito e della famiglia d’origine, creando scandalo nella pur tollerante Roma rinascimentale.

L’influenza di Giulia favorì la carriera del fratello Alessandro che a 25 anni divenne Cardinale oggetto di feroci pasquinate ; in giovane età ebbe figli che dettero origine alla dinastia dei Farnese duchi di Parma e Piacenza poi prese gli ordini sacri e divenne  papa con il nome di Paolo III. Fu grande mecenate, si dedicò alla riforma della Chiesa ed iniziò il Concilio di Trento. Tra le varie stanze dell’Appartamento Borgia, in gran parte ancora esistente e visitabile, il Pintoricchio, con il suo stile nitido ed elegante, affrescò la stanza da letto del papa decorando una parete con l’immagine del papa, con un manto rosso, inginocchiato davanti ad una Madonna che tra le braccia ha il Bambino che protende le mani, una delle quali tiene un globo aureo con una croce, verso il papa che a sua volta gli carezza un piede. Nella Corte cominciarono a correre voci malevole propalate da avversari dei Borgia e dei Farnese che sostenevano trattarsi del papa inginocchiato davanti a Giulia rappresentata come la Vergine.

La diceria continuò per decenni tanto che oltre 50 anni dopo il Vasari parlò di “Signora Giulia Farnese per il volto di Nostra Donna” e i papi successivi dovettero intervenire. Giulio II Della Rovere, immediato successore, si trasferì in un nuovo appartamento che fece affrescare da Raffaello e in quello Borgia furono ospitati i Cardinali Nipoti; Pio V Ghislieri, a metà ‘500, fece coprire l’affresco con tappezzerie, nel 1612, durante il pontificato di Paolo V Borghese, l’ambasciatore del Duca di Mantova corruppe un servitore con un paio di calze di seta, fece copiare il dipinto da un mediocre pittore, Pietro Fachetti, e lo inviò a Mantova.

A metà ‘600 papa Alessandro VII Chigi per porre fine ad una leggenda circolante da un secolo e mezzo  fece distruggere l’affresco;  frammenti con la testa della Madonna ed il Bambino furono salvati, incorniciati formando due piccoli quadri separati rimanendo per secoli dei Chigi e finendo poi, decontestualizzati ed ignorati, sul mercato antiquario. Soltanto negli ultimi anni i due frammenti sono stati abbinati al quadro di Mantova ricostruendo l’immagine dell’affresco perduto; già nel 2007 in una mostra a Palazzo Venezia è stato presentato il quadro con il Bambino destando grande interesse e curiosità per due mani, una su un fianco e l’altra intorno ad un piede, appartenenti a due diverse persone mostrando evidentemente che il Bambino faceva parte di un gruppo.

Successivamente è ricomparso, proveniente da una collezione privata, il piccolo quadro con il volto di una Madonna e la Sovrintendenza Capitolina unitamente all’Associazione Culturale MetaMorfosi e a Zetema Progetto Cultura ha organizzato una mostra che riunisce i due frammenti di affresco, il quadro di Mantova ed una trentina di opere, quadri, stampe, documenti riferibili all’attività del Pintoricchio. Ai Musei Capitolini è stata ricostruita una parte della vita culturale dell’ultimo ‘400 romano, riproducendo anche con gigantografie alcuni affreschi dell’Appartamento Borgia. Attraverso il confronto tra i due frammenti e la copia del Fachetti i curatori, Acidini, Buranelli, La Malfa, Strinati,  hanno ricostruito l’immagine dell’affresco originario e sono giunti ad una importante conclusione. L’eguaglianza Madonna-Giulia è insostenibile ed è una diceria falsa; il viso della Madonna non è un ritratto di Giulia, che forse è stata identificata in un affresco molto deteriorato nel castello farnesiano di Carbognano, ma è il tipico volto allungato delle Madonne del Pintoricchio che mantengono sempre un carattere di dolcezza, di soavità.

L’affresco avrebbe rappresentato l’investitura divina al papa Alessandro; non sarebbe il papa che ammira Giulia ma il Bambino, sorretto dalla Madonna, che concede al pontefice la potestà di Suo Vicario. Pittore identificato e mistero svelato.

****************************

Pintoricchio. Pittore dei Borgia
Il mistero svelato di Giulia Farnese
Dal 19 maggio al 10 settembre 2017

Musei Capitolini (Palazzo Caffarelli)
Piazza del Campidoglio
Roma

Orari:
tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima)

Ingresso:
€ 15 biglietto intero integrato Mostra + Museo (comprensivo della tassa del turismo per i non residenti a Roma);
€ 13 biglietto ridotto integrato Mostra + Museo, per i non residenti a Roma (comprensivo della tassa del turismo per i non residenti a Roma)
Gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente

Informazioni:
tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)

Catalogo:
Gangemi

****************************

Il Candelabro della memoria

L’oggetto in questione è la Menorà, un grande candelabro d’oro a sette bracci che si trovava nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua distruzione nel 70 d.C.. La sua storia, documentata, è esigua, la sua leggenda vasta e articolata; si inizia con l’Antico Testamento allorché Dio comandò a Mosè di far fondere un candelabro a sette bracci di oro purissimo e pesante circa 35 chili. Il candelabro seguì con l’Arca dell’Alleanza le peregrinazioni del popolo ebraico finché fu ospitato nel grande Tempio eretto da Salomone intorno al 950 a.C.; lì rimase per quattro secoli fino alla distruzione dell’ edificio sacro da parte dei Babilonesi di Nabucodonosor e la deportazione degli Ebrei. Anni dopo questi ultimi furono liberati dal Persiano Ciro e tornarono a ricostruire Gerusalemme ed il Secondo Tempio dove fu di nuovo collocata la Menorà, forse l’antico o più probabilmente un nuovo cadelabro dato che le vaghe  descrizioni bibliche non concordano.

Il grande oggetto liturgico sopravvisse nei secoli seguenti in cui in Palestina si alternarono vari dominatori fino alla rivolta dei Maccabei che ripristinarono la libertà di Israele. Poi sopraggiunsero i Romani e durante la grande rivolta del 70 d.C. Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, assediò e prese Gerusalemme, il Tempio fu incendiato e l’arredo sacro predato. In una parete interna dell’Arco di Tito, al Foro Romano, è rappresentato il suo trionfo con un corteo di soldati romani che trasportano la Menorà e le trombe d’argento del Tempio; il candelabro fu esposto nel Foro della Pace costruito da Vespasiano e lì finisce la storia e comincia la leggenda.

Non si sa che fine abbia fatto il prezioso candelabro: potrebbe essere stato asportato durante il sacco di Roma dei Visigoti di Alarico del 410 d.C. o in quello dei Vandali di Genserico del 455; vaghi accenni su un tesoro imperiale romano trasferito in Africa e lì recuperato dai Bizantini e portato a Costantinopoli appaiono negli scritti dello storico Procopio da Cesarea ma non sono tali da essere plausibili. Della fine del ‘200 è una grande iscrizione, su mosaico, dell’epoca di Papa Niccolò IV nella Basilica di San Giovanni in Laterano; su di essa sono elencate le reliquie che sarebbero state contenute in un sotterraneo della chiesa e tra esse è indicato un oggetto identificabile con un candelabro ma accurati accertamenti non hanno dato alcun risultato.

Altre leggende, assolutamente improbabili, sostengono che la Menorà sia ancora giacente nell’alveo del Tevere, altre che sia celato nei sotterranei del Vaticano. Anche se scomparso da tanti secoli il grande candelabro d’oro ha lasciato la sua impronta nella memoria collettiva in particolare del popolo ebraico, sin dall’inizio della diaspora l’immagine è diventata un simbolo di appartenenza e di identità degli israeliti, forse fu l’esposizione nel Foro della Pace a far maturare l’idea di considerare quell’oggetto rubato agli Ebrei come il simbolo della loro unità ed identità pur nella tragedia della diaspora. Il 16 maggio 1948 quando fu proclamata la costituzione dello Stato d’Israele la Menorà fu scelta come simbolo del nuovo stato che raccoglieva, dopo due millenni, parte degli ebrei sparsi per il mondo.

Per ricordare l’evento e per evidenziare gli ottimi rapporti intercorrenti tra la Chiesa Cattolica e la Comunità Ebraica Romana i Musei Vaticani ed il Museo Ebraico di Roma hanno insieme organizzato una mostra che attraverso tre nuclei, il Culto,la Storia, il Mito, ripercorre le millenarie vicende del grande candelabro d’oro. L’esposizione che ospita 130 reperti di vario genere è visitabile presso due sedi, la gran parte delle opere è presso il Braccio di Carlo Magno, accessibile da Piazza San Pietro, le altre sono presso il Museo Ebraico situato nei sotterranei della Sinagoga.

Nel Braccio l’esposizione si svolge come un grande rotolo in cui cronologicamente e per temi sono esposte numerose opere d’arte d’ogni genere sia di provenienza cristiana che ebraica. Si comincia con la Pietra di Magdala, databile a cavallo dell’inizio dell’Era Volgare, trovata recentemente nelle rovine di una antica sinagoga e riportante l’immagine del candelabro, seguono frammenti di marmo, lucerne e lastre tombali con il simbolo stilizzato della Menorà.

Si passa poi al medioevo quando spesso in molte chiese cristiane apparvero candelabri ispirati alla Menorà, in mostra sono esposte bellissime opere quali due pezzi in bronzo, di metà’400, attribuiti a Maso di Bartolomeo, ora nella Cattedrale di Pistoia, e due grandi candelabri d’argento, in stile barocco, provenienti da Majorca. Seguono libri manoscritti, ebraici e cristiani, con eleganti miniature riproducenti la Menorà e tra loro la celebre Bibbia, di San Paolo fuori le Mura, risalente alla fine del IX secolo e donata al Pontefice dell’epoca dall’Imperatore Carlo il Calvo. Sono esposti vari dipinti, due dell’inizio ‘500, del Venusti e di Giulio Romano, rappresentano episodi del Vecchio Testamento con immagini del Tempio, quadri barocchi, tra cui uno del Poussin, rievocano eventi biblici con sullo sfondo il candelabro sacro e seguono anche dipinti dei secoli successivi. Di grande interesse un pannello settecentesco, opera dell’Opificio Pietre Dure di Firenze, composto di pietre colorate che illustrano un episodio veterotestamentario.

Conclude la mostra il bozzetto ultimo, firmato dal primo ministro del 1948, David Ben Gurion, dello stemma dello Stato d’Israele.

Solo dieci le opere esposte al Museo Ebraico, mescolate ai numerosi ed interessanti reperti del museo; tra loro lapidi funerarie provenienti dalle catacombe ebraiche, un paio di dipinti barocchi ed un calco della lastra, sopra citata, di San Giovanni in Laterano con indicazione della Menorà. In conclusione una mostra interessante, anche se è assente il soggetto principale, e ricca di reperti anche poco conosciuti e di suggestioni.

****************************

La Menorà. Culto, Storia e Mito
dal 16 maggio al 23 luglio 2017

Braccio Carlo Magno
piazza San Pietro

Museo Ebraico
via Catalana

Roma

orario:
Braccio Carlo Magno
lunedì, martedì, giovedì, sabato 10/18 – mercoledì 13/18
domenica chiuso

Museo Ebraico
da domenica a giovedì 10/18 venerdì 10/16
sabato chiuso

ingresso:
biglietto unico – Euro 7,00

Catalogo:
SKIRA

****************************