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Confini

Approfitto dell’uscita di un libro allegato al quotidiano di Trieste Il Piccolo, Il confine orientale, di Alessio Anceschi, per parlare di confini. Se ne è discusso anche in un recente convegno (1), l’argomento è attuale, visto che con la guerra in Ucraina per ora è andato a pezzi il principio – ribadito nel dopoguerra – dell’inviolabilità dei confini di stato. Confini ormai indeboliti dalla globalizzazione e dalle migrazioni, ma  ora ridiscussi sul terreno della guerra in Ucraina. I confini in realtà non sono mai totalmente impermeabili e si spostano continuamente, e sono in fondo una creazione dello stato moderno: in passato le frontiere tra un impero e l’altro non erano segnate né sempre controllate, lasciando ampie zone senza stato, percorse dalle vie carovaniere e abitate da allevatori nomadi. Il Limes romano era sì presidiato e pattugliato, ma in modo diverso dalla Cortina di Ferro. Ma ancora nelle carte geografiche stampate nel ‘700 i confini fra gli stati erano tracciati all’acquerello al momento della messa in commercio delle mappe, vista la frequenza con cui le varie guerre dinastiche li cambiavano. E si è visto che anche i confini nazionali più ragionevoli – come quelli dell’Italia, cinta per natura dalle Alpi e dal mare – non escludono sconfinamenti, minoranze, ibridazioni e annose rivendicazioni politiche. Figurarsi poi se parliamo delle ampie distese di pianura dove non sono le montagne ma piuttosto i grandi fiumi a indicare una linea di frontiera fra un popolo e l’altro, mai favorendo la stabilizzazione di entità statuali permanenti. Si guardi l’estesa landa che va dalla Germania fino alla Russia, o quella altrettanto ampia che traversa i bacini dal Baltico al Mar Nero: parlare di confini stabili non ha senso e infatti essi sono cambiati con le guerre. I Sovietici dopo la seconda Guerra mondiale si vantavano di aver regalato ai polacchi un pezzo di Germania, ma senza dire che a Est si erano annessi un pezzo di Polonia. Oppure al contrario i Balcani: lì ogni tentativo di separare le varie etnie e fissare confini finisce nella guerra civile e nell’espulsione dei diversi. E qui è opportuno ricordare la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che portò agli Accordi di Helsinki nel 1975 (2). Il riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali e il rispetto dell’integrità territoriale furono sottoscritti dall’Unione Sovietica, ferma sulle sue acquisizioni territoriali nell’Europa orientale dopo la fine della seconda GM.  Tuttavia l’atto finale ammetteva la possibilità di cambiamenti pacifici dei confini, non dando per scontata – su pressione USA e NATO – l’inclusione forzata di Lituania, Lettonia ed Estonia all’interno dell’URSS. D’altro canto il principio dell’autodeterminazione dei popoli lasciava in sospeso due punti che in futuro avrebbero procurato solo danni: i confini interni fra gli stati e il rispetto delle minoranze. Nelle entità statuali che si sono sfasciate dopo la Guerra Fredda – Jugoslavia, URSS – i confini amministrativi fra le province sono stati artificiosamente trasformati in confini di stato e le minoranze sono state oppresse come in Occidente negli anni 20 e 30, causando migliaia di morti e situazioni ancora critiche, Sicuramente in questo momento si sente il bisogno di un’altra Conferenza di Helsinki e chissà se ci arriveremo. Nel frattempo si spera che dopo tre anni il conflitto fra Russia e Ucraina si fermi.


  1. Il NordEst 11 marzo 2025, “Ritorno dei confini e fine del multilateralismo nell’anteprima del Treviso Città Impresa”
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Accordi_di_Helsinki

Europa armata di buon senso

Negli ultimi decenni, l’Europa si è trovata spesso a rincorrere gli eventi, senza una strategia chiara e univoca per affrontare le sfide globali. La soluzione non può essere una corsa individualistica agli armamenti, con ogni Stato che si muove in ordine sparso come una sorta di Armata Brancaleone. Al contrario, è fondamentale creare un’unica regia, un coordinamento efficace che consenta all’Unione Europea di agire con prontezza e lungimiranza.

Per troppi anni, i Paesi europei hanno evitato una reale integrazione della politica di difesa per paura di perdere prestigio e sovranità nazionale. Questo ha portato a un continuo inseguire le crisi, spesso spendendo in modo inefficace e frammentario. La mancanza di una visione comune ha indebolito la capacità dell’Europa di rispondere in modo deciso e autonomo alle sfide geopolitiche, relegandola a un ruolo di secondo piano rispetto ad altre potenze globali.

Non è la mancanza di risorse o competenze tecnologiche a frenare l’Europa: il continente vanta eccellenze industriali e scientifiche nel settore della difesa e della sicurezza. Ciò che manca è un utilizzo sinergico di queste capacità. Una vera strategia comune, fondata su un’industria della difesa europea integrata e su un comando centralizzato, permetterebbe di ottimizzare gli investimenti, sviluppare tecnologie avanzate e ridurre la dipendenza da attori esterni.

Una difesa efficace non si misura solo in armamenti, ma anche nella capacità di prevenire i conflitti attraverso la diplomazia e la stabilità economica e finanziaria. L’Europa deve essere un attore globale capace di garantire sicurezza non solo con la forza, ma anche con la promozione dei diritti, della cooperazione e dello sviluppo sostenibile.

Non si tratta di militarizzare l’Unione Europea, ma di renderla capace di proteggersi senza dover dipendere esclusivamente da alleanze esterne. Un’Europa unita nella difesa, nella strategia economica e nella politica estera può diventare un modello di sicurezza intelligente, capace di affrontare il futuro con decisione e coerenza. La sfida è abbandonare le logiche nazionalistiche del passato e costruire una visione comune che permetta di rispondere alle minacce con coordinazione, efficienza e, soprattutto, buon senso.

Dove si abita tra le mura e la strada

Per secoli, la casa ha rappresentato il punto di arrivo di un percorso di stabilità sociale. Oggi, invece, è spesso il punto di partenza per cercare di migliorare la propria condizione di vita. Tuttavia, per molti, la casa resta un sogno irraggiungibile, mentre il concetto stesso di abitare si fa sempre più fluido, trasformandosi in un continuo adattamento a situazioni di emergenza e precarietà.
Questa mostra fotografica esplora le molteplici declinazioni dell’abitare, passando da un giaciglio improvvisato per chi vive ai margini della società, alle case famiglia che offrono protezione e calore, fino alle case popolari, espressione di un bisogno collettivo di sicurezza abitativa. Ma l’abitare oggi è anche segnato da criticità e speculazioni: la crisi abitativa, l’incremento degli affitti brevi e il conseguente sfruttamento immobiliare contribuiscono a rendere la casa sempre più un privilegio anziché un diritto.
Il percorso espositivo si sofferma inoltre su alternative e strategie per contrastare l’emergenza abitativa. I dormitori e le strutture di accoglienza rappresentano una prima ancora di salvezza per chi si trova senza casa, mentre forme di abitare condiviso come il cohousing e l’hosting aprono nuove prospettive di solidarietà e comunità.
Ma l’abitare non si esaurisce nelle mura di un edificio. Per molti, la terra stessa diventa casa, un rifugio alternativo rispetto agli ambienti urbani soffocanti. Il legame con la natura rappresenta un ritorno a una dimensione più essenziale dell’abitare, lontana dalle logiche di mercato e più vicina a un’idea di appartenenza e radicamento.
Attraverso gli scatti viene presentata la realtà dell’abitare con approcci diversi: alcuni fotografi adottano uno stile documentaristico per catturare con realismo le condizioni abitative di chi è in difficoltà, mentre altri reinterpretano il tema attraverso linguaggi visivi più evocativi, offrendo una visione onirica e simbolica.
La mostra è una versione modificata e arricchita di quella allestita a Lugano nel 2024, proponendo un percorso di riflessione che invita a interrogarsi su cosa significhi realmente avere una casa oggi. È un’indagine sulle fragilità del nostro tempo, ma anche sulle possibilità di riscatto e sulle nuove forme dell’abitare, nella speranza di un futuro in cui il diritto alla casa non sia più un’utopia.


Abitare: non solo casa
Dal 18 marzo al 10 aprile 2025

Inaugurazione il 18 marzo dalle 16 alle 19

Città Metropolitana – Roma Capitale
Villa Altieri – Palazzo della Cultura e della Memoria Storica
Viale Manzoni, 47
Roma

Dal lunedì al giovedì 8-18 il venerdì 8 – 14
Se il cancello è chiuso, suonare al citofono

Sono presenti le fotografie di: Monica Barberini, Michele Biondi, Eleonora Del Brocco, Silvana Di Stefano, Marco Gianinazzi, István Stefan Gyalai, Gianleonardo Latini, Luigia Martelloni, Maria Pia Michieletto, Maria Luisa Paolillo, Olivier Paravel, Maria Luisa Passeri, Daniela Passi, Graziella Reggio, Barbara Schaefer, Arianna Tedesco, Victoria Thomen.

La foto dell’iniziativa è di Daniela Passi

Promossa dalla Fondazione MAGIS ETS
in collaborazione con Artisti Oltre i Confini
A cura di Gianleonardo Latini

Come arrivare:
Raggiungibile con Linea Metro A – Fermata Manzoni
Linee Autobus e Tram 3, 360, 590

Per informazioni e su appuntamento:
tel. + 39 06 69 700 32
michisanti.p@fondazionemagis.org


Edvard Munch oltre l’iconico Urlo, IL FUOCO INTERIORE

“Non credo ad un’arte che non sia dettata dal bisogno dell’uomo di aprire il suo cuore”

“Io che conoscevo ciò che esisteva sotto la superficie lucente, non potevo unirmi a chi viveva tra le illusioni – sulla superficie lucente che rifletteva i puri colori dell’atmosfera”

“Attraverso la mia arte ho cercato di spiegare a me stesso la vita e il suo significato, ma anche aiutare gli altri a comprendere la propria” Edvard Munch (E.M.)

Dopo Milano, è finalmente a Roma la mostra dedicata a Edvard Munch (Norvegia, 1863 -1944).
Palazzo Bonaparte ospita un’ampia retrospettiva che indaga sull’universo dell’artista norvegese attraverso 100 opere prestate eccezionalmente dal Munch Museum di Oslo, tra cui una delle versioni litografiche custodite a Oslo de L’Urlo (1895).
L’esposizione presenta Munch non solo come eclettico artista (pittore, incisore e fotografo), ma anche come uomo che si racconta (attraverso lettere, note di viaggio, diari, fino ai pensieri sparsi sul suo lavoro) comunicando riflessioni, emozioni e la sua visione del mondo.
La perdita prematura della madre a soli cinque anni e della sorella, i ricoveri di un’altra sorella in una clinica psichiatrica, lo stato mentale del padre “ipereccitabile pietista religioso fino alla pazzia” (E.M.), lo conducono precocemente ad acquisire una particolare sensibilità verso ciò che lo circonda che marcherà il suo vissuto e la sua potenza espressiva.
Attraverso il suo microcosmo filtra e interpreta la sua epoca.
A partire dalla fine dell’Ottocento, infatti, la cultura europea attraversa profondi sconvolgimenti; si avverte quell’agitazione sociale in cui le norme culturali, i paradigmi scientifici e le ideologie politiche vengono messe in discussione e sono in costante mutamento.
Precoce nel cogliere alcuni aspetti della vita e di sé stesso, Munch, si esprime facendo percepire, oltre che vedere, emozioni esistenziali come la sofferenza, l’angoscia, ma anche l’amore e la rinascita. Per questo forse, la sua pittura trova affinità elettiva, nell’immaginario teatrale nordico di Ibsen e Strindberg.
Artista prolifico, Edvard Munch si esprime liberamente sperimentando fino a individuare un linguaggio proprio.
Le scene appaiono in spazi costituiti da blocchi di colore uniformi dove l’artista spesso deforma le linee prospettiche per rappresentare l’impressione, la sensazione che gli spazi trasmettono allo stato d’animo; i personaggi presentano a volte fissità negli sguardi o incompletezza nei volti per esprimere nella scena l’angoscia o il dramma. Il processo creativo sintetizza ciò che l’artista ha osservato e quello che ricorda emozionalmente. Inoltre, “luce e colori non sono accessori secondari ma esuberanti co-protagonisti di quella percezione di sé e della propria essenza interiore da rovesciare sul palcoscenico del mondo.” (E.M.)
Nella sua tavolozza, il blu è usato principalmente per le atmosfere mistiche e introspettive; il nero per i suoi significati simbolici universali che evocano la morte e la rinascita; “il giallo è la guancia dell’ inganno, infedele e astuto per natura, l’appiccicoso colore giallo” (E.M.); il bianco è usato per rappresentare la purezza e l’innocenza ma anche l’assenza di vita (come le maschere dei suoi spettri); rosso per la passione o il desiderio che diventano tentazione, seduzione e peccato; “marrone è la fermezza – che fugge la sua pace mentale – paziente e forte” (E.M.);
Incurante dello scandalo suscitato dalle sue opere per temi e tecniche utilizzate, seguendo suo fuoco interiore, crea La bambina malata (1885-86), Sul letto di morte. La febbre (1893), Malinconia (1900), Madonna (1895-1902), Vampiro (1895), Autoritratto all’inferno (1903), La morte di Marat (1907) che ora possiamo ammirare nell’esposizione romana.
Per tutta la sua carriera artistica, critici conservatori hanno denigrato le sue opere definendole incomplete o mancanti di finitura; ciò nonostante, è diventato protagonista indiscusso nella storia dell’arte moderna.
Oggi Munch è considerato un precursore dell’Espressionismo e uno dei più grandi esponenti simbolisti dell’Ottocento.


Munch
Il grido interiore

Dall’11 febbraio al 2 giugno 2025

Palazzo Bonaparte
piazza Venezia, 5
Roma

A cura di Patricia G. Berman con la collaborazione scientifica di Costantino D’Orazio e del museo di Oslo

Produzione Arthemisia


Alla ricerca degli artisti perduti 15

Jef Bourgeau (1950)

Sì, c’è molta cultura figurativa della tradizione americana in questo dipinto : fantasia, piacevolezza, magia del colore in chiave favolistica e piacevolmente illustrativa. In fondo può ben figurare in un cartone animato di Walt Disney (e non lo sto deprezzando..). I disegni animati e la loro accesa e ricca cromaticità, nello stupore di una natura incantevole, denunciano la tendenza estetica di una grande terra giovane e ottimistica che si esprime meglio in un racconto per fanciulli che con involute e complesse stratificazioni umorali….Un incrocio fra il simbolista Serusiér e l’americanissimo Hopper!

FERNAND LEGER (1881 – 1955)

Una pittura “meccanica”, con tutta la rigidità e la freddezza del metallo che ripudia la magnifica fragilità, la sensualità, il sentimento dinamico del pathos e il “panta rei” : l’infinito scorrere del divenire vitale….Una pittura “ragionata” la sua, precisa come un ingranaggio implacabile e inattacccabile.

CARLO CARRA’ (1881/1966)

Straordinario artista che visse una stagione di grande rinnovamento estetico e culturale a fianco dei “futuristi”, assumendo insieme a Balla e Boccioni la guida di punta del Movimento.

La storia è nota. Ma qui mi piace sottolineare come la lunga carriera artistica di Carrà lo portò a trasformare e arricchire la sua ricerca in ambiti poi diversissimi dai trionfi del Futurismo.

Ci fu un periodo della sua pittura che fu definito in vari modi, per la sua essenzialità e nuda sintesi figurativa, come “primitiva”, arcaica o altro…Io la definirei a ragion veduta “preraffaellita”, se questo attributo non fosse già stato usato per designare un gruppo di artisti inglesi che operarono alla fine dell’800.

Essi si proponevano di ritornare alla purezza e alla semplice monumentalità di Giotto e dei “giotteschi”. Intento che rimase poi solo nella proposta, sicché poi di “primitivo” ed essenziale restò ben poco nella pittura raffinatissima del più puro Decadentismo di questi artisti.

Essenzialità, primitiva purezza e semplicità arcaica che invece distingue questo tardivo periodo di Carrà : guardate per esempio questo suo dipinto ” Le figlie di Loth”.

Per cui, paradossalmente, questo suo amore per la pittura italica del ‘200 e ‘300, invero lo dovrebbe definire “giottesco” e “pregiottesco”, e quindi “preraffaellita!”

CECCO BONERI o Cecco del Caravaggio – (1589-1630?)

Fu, pochi sanno, garzone di bottega, tuttofare, modello e, forse, si vocifera anche amante del maestro.

Eternato, il vivace ragazzo, in molti capolavori del Merisi ( “Amor vincit omnia”, “Davide e Golia” e altri), fu anche spesso aiutante nella stesura di base di molte tele, ed essendo vivace di intelletto e facile ad apprendere, approfittò dei molti consigli del maestro per poi prodursi egli stesso come pittore, ovviamente nello stile caravaggesco, pittore per niente trascurabile ma anzi vitale e di una qualche sua originalità.

Il guaio è che non firmava mai le sue tele se non questa che pubblico :” Gesù scaccia i mercanti dal Tempio”, dipinto davvero notevole per qualità dinamica e compositiva, ( si noti la massa dei mercanti che si piega come un’onda umana sotto i colpi della sferza di Cristo). oltretutto Cecco, da buon osservatore, replica in parallelo alla diagonale umana la diagonale di luce che taglia la scena, elemento costante e riconoscibile del maestro.

Che altro dire? Cecco ebbe vita breve e poco si sa d’altro se non che, ragazzaccio rissoso e “fumantino” come Caravaggio, con lui spesso si ritrovò per taverne equivoche, anche lui svelto di pugnale e facile all’alterco.

Un personaggio tutto sommato “colorito”, tipico di quelli anni movimentati ma ricchi di arte e di artisti, anni confusi ma di gloriose produzioni e proposte che dettarono poi legge, da Caravaggio e i caravaggeschi, alla pittura dell’intera Europa.

Francesco detto Cecco avrebbe sicuramente interessato, con i suoi chiaroscuri e vicende alterne, certo Romanticismo dell’inizio ‘800 che volentieri ne avrebbe fatto un suo personaggio affascinante e misterioso.